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Borsellino: via D’Amelio 27 anni dopo, depistaggi e silenzi

Un lampo tragico. Un tempo breve e terribile, oscuro e colmo di tensione. Un’onda lunghissima di silenzi e misteri che ancora non si è arrestata.
Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D’Amelio. Ventisette anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora oggetto di processi e nuove indagini.
Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto di intollerabili incapacità e complicità, che gettarono coloro che erano in prima linea dentro un abisso solitario e pericoloso, come testimoniano anche gli atti recentemente desecretati dall’Antimafia.


La sentenza del processo Stato-mafia, del 20 aprile dell’anno scorso, con l’appello che si sta celebrando da circa tre mesi, ha aperto pesanti scenari. La trattativa, dice quel verdetto, c’e’ stata: pezzi di istituzioni e i vertici di Cosa nostra hanno negoziato mutue concessioni, condizionato scelte e uomini e accelerato l’epilogo tragico del 19 luglio.
Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli”. A un certo punto, raccontò Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”. La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”.

I 57 giorni continuarono a scorrere inesorabili. Fino a una domenica d’estate del 19 luglio 1992.
Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58.
L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della citta’. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni.

Dopo 27 anni restano tanti misteri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell’Utri, a giudizio di molti ha dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l’accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull’eccidio di via D’Amelio. Su quello di Capaci sempre la procura nissena ha indagato recentemente due boss della mafia catanese che avrebbero fornito una parte dell’esplosivo: il pentito Maurizio Avola – i cui verbali sono stati depositati nel processo bis d’appello – e il suo capo di allora, Marcello D’Agata. Tra le piste seguite una ricondurrebbe a un esperto di esplosivi inviato dalla mafia americana per addestrare gli stragisti. Si tratta così di capire anche quale ruolo abbia avuto nella stagione stragista Cosa nostra americana. Dal marzo 2017 Matteo Messina Denaro da latitante e’ a giudizio a Caltanissetta per le stragi del ’92. E’ accusato di esserne uno dei mandanti. Durante l’udienza preliminare, il pm Gabriele Paci ha sostenuto che Messina Denaro prese parte a una riunione della commissione di Cosa nostra alla fine del ’91 nella sua Castelvetrano, in cui Riina diede il via alla strategia stragista.

Il capomafia, inoltre, avrebbe inviato a Roma, su ordine di Riina, diversi killer per uccidere Falcone nei primi mesi del ’92, ma la missione falli’. All’apertura del procedimento, Paci aveva chiesto di interrogare l’imputato Messina Denaro… aggiungendo che era “un auspicio”.
Gia’ perche’, il tempo della battaglia e quello della sfida ancora attualissima, nonostante questi 27 anni, per laverita’ e la giustizia, non si ferma. Come ha avvertito recentemente Fiammetta Borsellino: “Lo stesso impegno che ha caratterizzato il lavoro di mio padre e di Giovanni Falcone, ma di tanti altri prima e dopo di loro per la ricerca della verita’, credo debba essere presente ancora oggi per fare luce sulle tante omissioni e le tante irregolarita’ che hanno caratterizzato le indagini e i processi su via d’Amelio”. E’ una richiesta che non riguarda solo la famiglia Borsellino, “ma e’ un qualcosa di cui tutto il popolo italiano e tutta la società si deve fare carico”. 

 

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